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Blog · giovedì 24 febbraio 2022

Quale futuro per le montagne di mezzo?

Le montagne di mezzo come luoghi per costruire nuovi paesaggi, spazi di vita sostenibili e democratici.

Quale futuro per le montagne di mezzo?

Quante volte sentiamo nominare la parola paesaggio durante un’escursione in montagna? Chi di noi non ha pronunciato almento una volta “che bel paesaggio” una volta raggiunta la cima di un monte o da un pulpito di roccia dove si poteva godere di una ampia vista davanti a noi?

Il termine paesaggio viene però spesso usato senza conoscerne realmente il significato. E’ un termine sicuramente complesso, polisemico, multidisciplinare e di non banale inquadramento ma, se vogliamo provare ad approcciarlo a piccoli passi, possiamo considerare il paesaggio come l’ espressione delle dinamiche territoriali in cui elementi naturali e culturali dialogano tra loro e come queste vengono interpretate e percepite dalla popolazione.

Quindi capite bene che saper leggere e interpretare correttamente un paesaggio ci consente di conoscere anche se quel paesaggio, o meglio i processi territoriali in atto, sono sostenibili, ossia se le pratiche in atto stanno intaccando oppure no la disponibilità delle risorse attuali per le generazioni future. Parlando dei paesaggi di montagna ad esempio, continuare a costruire ed allargare piste da sci, in un’epoca di cambiamento climatico dove l’innalzamento delle temperature obbligherà questo settore ad essere sempre più energivoro nei confronti delle risorse e le condizioni ambientali sempre più sfavorevoli (carenza di acqua e inverni sempre meno rigidi in primis), sarà sostenibile per la montagna e per tutti noi? Oppure possiamo provare a ripensare a nuovi usi e nuove frequentazioni?

Se da una parte assistiamo a fenomeni dove la montagna è consumata come luogo di divertimento a servizio della città, playground turistico dove gli aspetti antropologici sedimentati nel corso della storia millenaria di antropizzazione alpina non vengono considerati (e con essi le esigenze ecologiche di rispetto ed equilibrio di un’ecosistema fragile), dall’altra osserviamo fenomeni di abbandono ed inselvatichimento causati da un’emorragia lenta e costante da tutte quelle montagne di mezzo che non rispondono o non interessano ai criteri di massificazione e consumo da parte del mondo urbano, oppure dove gli abitanti sono stati chiamati dalla chimera industriale evocata dalla pianura. Il grande studioso delle Alpi Werner Batzing ha chiamato questa polarizzazione in atto “estremizzazione degli habitat”. Montagne consumate e montagne abbondonate.

In questo discorso assume particolare importanza il futuro della cosiddette montagne di mezzo, cioè quelle montagne dove l’altimetria fisica (comprese tra i 600 e 1500 metri di altitudine circa e che rappresentano il 74% della superficie montana d’Italia) è stato addomesticata per secoli dalla montanità antropologica, ossia dalla capacità degli abitanti di saper vivere e convivere in precario ma efficace equilibrio con i ritmi e le dinamiche di un ambiente difficile. Per secoli l’uomo è riuscito a sfruttare le risorse scarse della montagna e volgerle a proprio vantaggio, coniugando saperi tradizionali, ingegnosità, capacità di svolgere più mansioni e utilizzando quelle stesse risorse in modo polifunzionale.

Oggi assistiamo purtroppo da un lato all’abbandono di questa montagna intermedia (nel 2018 per la prima volta dall’Alto Medioevo la copertura forestale - sulle Alpi e in Appennino - ha superato la superficie agraria) e con esso, oltre al deficit demografico, assistiamo alla perdita di saperi ed eredità storiche, alla riduzione della biodiversità (a causa della rarefazione delle superfici prative), alla banalizzazione e semplificazione del paesaggio (pensiamo alle monocolture intensive nei fondovalle montani), all’arrivo di specie alloctone ed invasive. Dall’altro assistiamo, sulle montagne-parcogiochi, alla mercificazione del paesaggio montano ad uso e consumo del diletto urbano, oppure alla creazione di santuari della wilderness, del vincolo, della protezione a tutti i costi quasi come per espiare una colpa tutta cittadina, senza magari tenere realmente conto delle esigenze di chi ancora in montagna vive, abita e lavora. Un argomento complesso e delicato che non può racchiudersi nelle poche righe di un blog, ma il tema della convivenza tra elementi umani e non umani in montagna è e sarà al centro del dibattito sul futuro di questi luoghi.

Nel mezzo di questa polarizzazione, è necessario ripensare il ruolo della media montagna, comprendere le esigenze di chi ritorna o di coloro che intendono avviare un nuovo progetto di vita, dove oltre alle esigenze della produzione (tanto cara al modello industriale di pianura) si affiancono i valori dell’abitare in un ottica relazionale e polifunzionale. L’esempio della borgata di Paroloup https://www.nutorevelli.org/storia/, in valle Stura, nella provincia di Cuneo, potrebbe aiutare a ripensare nuovi modelli di sviluppo dove l’ambiente montano può essere “la chiave per una possibile transizione verso un’economia e una società che incorpora il limite nel suo processo di sviluppo” (G. Dematteis).

Per ripensare nuovi paesaggi in montagna, veri spazi di vita sostenibili e democratici.